|RECENSIONE| Lame senza Memoria - Diego Cocco

ottobre 29, 2017







LAME SENZA MEMORIA

di
Diego Cocco








Editore: Lettere Animate
Data di Pubblicazione: 2015
Formato: ebook/copertina flessibile
Pagine: 70


Prezzo










Poveri diavoli sul ciglio dell'abisso, giocatori d'azzardo, burattini, vecchiette con giarrettiere pericolosissime, cadaveri stipati dentro fabbriche perfette fino alla fine dei giorni, scrittori travestiti da puttane: sono solo alcuni dei personaggi che si muovono fra i versi di questa raccolta. L'autore ci trascina dentro la palude maleodorante del quotidiano utilizzando una prosa che si mescola alla poesia e non lascia scampo. Visioni terribili o semplici esperienze di vita, queste righe sono lame affilate in cerca di cuori vivi e coscienze da trafiggere. Perché forse l'arma più letale per uccidere la stasi dell'uomo moderno è nascosta nel ritmo sublime dei tasti di una vecchia macchina da scrivere.










Le poesie – o meglio “pensieri in prosa” – di Diego Cocco sono capaci di scuotere l’animo del lettore, suscitando emozioni potenti che, come schiaffi, colpiscono nel profondo.
Non è una dote che tutti i poeti hanno, in quanto, con poche e misurate parole, riesce ad esprimere stati d’animo, concetti, sentimenti e la meccanica della vita in generale.


In questa recensione, desidero fare parlare l’autore con alcuni estratti dei vari componimenti ed una breve analisi curata da me per quattro poesie, quelle che mi hanno colpita di più.





In “Fame?”, ad esempio, si allude chiaramente all’ingordigia – da potere, da soldi – che porta alla solitudine, un sentimento che distrugge il mondo, tramite la figura di una donna grassa che ingurgita ricche pietanze.


“[…] Quando hai finito

Ti alzi e te ne vai

la guerra è passata
restano i cadaveri
le ossa spolpate senza misericordia,
un cumulo di organi caldi
specchio deformato dell’umanità. […]”
(Estratto da “Fame?”)




In “Domande amare”, il poeta si rivolge ad un bambino, specchio di sé stesso, in un dialogo incentrato sulla crescita. Vi è un’inversione di ruoli, in quanto il piccolo, con la saggezza che solo gli infanti hanno, spiega che la felicità è rimanere bimbi, per giocare, vivere ed essere felici senza motivo. Il poeta desidererebbe ritornare a vivere semplicemente, ma il “piccolo poeta” gli spiega che ormai la vita degli adulti ha corrotto la sua innocenza e che non può più tornare indietro. E, con rammarico, l’autore sa che anche il bimbo un giorno crescerà, perdendo la sua saggezza in un ciclo senza fine.

“[…] Ho chiesto al bambino

se rimarrà così per sempre,

mi ha risposto con un sorriso

e una caramella al miele. […]”
(Estratto da “Domande amare”)




Il terzo componimento poetico che ho preso in oggetto per la recensione è “Morti vivi”.
Questa poesia è quella che chiamerei “definizione di uomo comune, senza sogni né aspirazioni”.
L’uomo che non ha bisogno di chiedersi il perché delle cose, a cui non importa della vita se non nella misura della ricchezza e dell’invidia altrui.
Sentimenti generalmente insiti nella persona che ignora l’esistenza del “mondo reale”, quello che si può vedere solo dopo che l’apertura mentale, data dalla cultura, ha fatto il suo corso.

“[…] Forse basterebbe un libro

a strapparli dalle sabbie mobili,

elevarli almeno un po’.

Sarebbe giusto spartire
pena e consapevolezza,
e tutti gli affanni,
nascosti tra i rovi. […]”
(Estratto da “Morti vivi”)





In conclusione, non potevo non scrivere di “Mani”.
Questa poesia è un pugno allo stomaco.
L’indifferenza degli uomini, capace di uccidere chi ha più bisogno di aiuto, volendo ignorare a tutti i costi i segnali che il prossimo ci manda, solo perché magari ad aiutare non ci si guadagna nulla se non gratitudine.
 
“[…] Guardai ciò che era rimasto:

la stoffa della cravatta 

si era impigliata su una ruota 

e aveva un disegno nuovo, 
non mancava niente eccetto
l’allegra melodia.
I passeggeri salirono nei vagoni
con gli occhi sull’orologio
e le valigette piene d’indifferenza. […]”
(Estratto da “Mani”)





La mente iperrealista del poeta e le sue esperienze personali sono il fulcro di questa raccolta di versi.
Vari i temi trattati, che con un linguaggio chiaro e schietto, fanno comprendere che il suo stato di disillusione è solo apparenza: Diego Cocco scrive per combattere, per far svegliare dal torpore del quotidiano quelle coscienze addormentate dalla routine, dalla televisione, dalle convenzioni radicate della società che pretende e promuove esseri non senzienti.
Diego, con la sua prosa e la sua visione poetica, riesce ad arrivare al lettore con semplicità e la forza di un uragano.
Sprona a vivere la propria vita, a credere fermamente che siamo noi gli artefici del nostro destino…basta solo non perdersi per strada tra le vie maleodoranti dell’omologazione.
Questo breve libro – 69 pagine – lo consiglio vivamente a tutti per il profondo significato che cela tra le sue pagine.
Di sicuro terrò d’occhio lo scrittore e, molto presto, tornerò a parlare di lui con la recensione di “Il collante dell’umanità chiamalo dolore” (di cui ho già curato la segnalazione qui).



Concludo la recensione con i versi che più mi hanno fatto comprendere l’alto significato di questa raccolta poetica, tratti da “Nero su bianco”:



“[…] Scrivo per ritrovare

il sogno perso della vita. […]”

















Recensione a cura di:









Non perdere nessun aggiornamento sui prossimi post:









Si ringrazia Diego Cocco per avermi inviato la copia del libro



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